Liberamente ispirato a Scirocco, di Francesco Guccini, fresco ottantenne.
Ci sono giorni in cui perfino questa città, in cui pure ho scelto di vivere, mi sembra bella. Sono i giorni dello scirocco, in cui il vento spazza l’aria e trasforma le case, le strade, perfino la gente, tanto che la realtà, così familiare da apparire lisa come i braccioli della poltrona preferita, mette su un travestimento irreale, quasi fosse un mondo parallelo che ci sembra di conoscere ma di cui ci sfuggono i dettagli.
Ma sono proprio i dettagli quelli che per la prima volta mi sembra di vedere in quei giorni. Le guglie del duomo sembrano più alte e le sculture e i fregi acquistano un nuovo rilievo, come se uno scultore barocco si fosse divertito ad appiccicare le sue creazioni sopra la struttura gotica.
In giornate come queste mi piace andare a passeggiare in periferia, tra le vecchie case con i fili per la biancheria che corrono lungo i muri, tra i balconi, a collegare le finestre. Lo scirocco solleva le lenzuola, le gonfia come le vele di un galeone corsaro, tanto che sembra di camminare lungo un porto canale, tra due ali di navi alla fonda.
Proprio in un giorno di questi lo incontrai di nuovo, dopo molto tempo. Era seduto al suo tavolino preferito, in un bar che lui considerava forse alla stregua di un bistrot parigino: arrivava, si sedeva, ordinava del vino, di solito rosso – fa più bohémien, diceva – apriva la sua cartella, tirava fuori il suo blocco di appunti dai libri di scuola e cominciava a scrivere. Poesie, diceva. La sua ambizione segreta. Cosa ne uscisse, non l’ho mai saputo davvero. Ho il sospetto che in realtà non abbia mai scritto niente di conclusivo, di soddisfacente. Era, è ancora, il tipo di scrittore mai soddisfatto, quindi condannato a restare per sempre sconosciuto, a non superare mai il vaglio del critico più severo di tutti – lui stesso.
Lo vidi, dicevo: in quel momento alzò la testa e lo salutai con la mano. Ricambiò il saluto e mi fece cenno di entrare a sedere con lui. A quel tempo ci piaceva stare insieme a chiacchierare, di cosa oggi non saprei dire. Parlavamo e le parole fluivano quasi senza una logica. Parlavamo di calcio, di musica, di nuvole, di donne, di poesia, di vino, di tutto quanto ci passasse per la testa.
Mi sedetti e ordinai anch’io del vino, ma non facemmo in tempo nemmeno a iniziare a parlare. La porta del bar si spalancò e nel locale entrò un turbine, un tornado. Pensammo che fosse stato il vento, che spronava le nuvole nel cielo, poi ci accorgemmo invece che c’era qualcuno accanto a noi. Una donna, la donna di cui mi aveva spesso parlato e che io conoscevo solo di sfuggita. Lui la guardò, smarrito. Lei lo salutò, chinò il capo verso di me, poi prese una sedia e si sedette, ripiegando attentamente sotto di sé lo stretto abito di percalle. Chiamò il cameriere e ordinò un tè con latte, che strideva decisamente accanto ai nostri calici di rosso. Ma lei era fatta così, voleva sempre spiccare, essere notata.
Iniziò a parlare, a raffica, come faceva sempre, quasi senza lasciare spazio per le risposte. Parlando piangeva, e beveva il tè, poi piangeva di nuovo e riprendeva in mano la tazza. Mi sentivo imbarazzato.
“Forse è meglio che vi lasci soli”, dissi.
“Resta”, disse lei, decisa. “Se non se la sente di affrontare l’argomento di fronte al suo migliore amico non lo potrà mai fare di fronte a nessuno”.
Lui la guardava, senza sapere come rispondere. Mi cercò con gli occhi, quasi implorando il mio aiuto, ma non c’era proprio niente che io potessi fare per lui.
Lei era un fiume in piena, inarrestabile, le mani che roteavano nell’aria, quasi dando forma ai suoi pensieri, ai sogni, alle delusioni, a quello che forse sapeva che non si sarebbe mai realizzato.
Era impossibile continuare così, disse. Doveva decidere. Lei non poteva aspettare in eterno.
“Ho due figli”, abbozzò lui. “Devi darmi tempo.” Gli occhi vagavano, febbrili, da lei a me al tavolo al bicchiere di nuovo a lei e ancora a me. Lo sguardo di un disperato, braccato, che si guarda intorno cercando la salvezza, che sa di dover decidere in una frazione di secondo, pena la sua stessa vita.
“Tempo… io…”, disse di nuovo, quasi a se stesso più che a lei. L’amore, la famiglia, la passione, la fedeltà, vedevo tutto passare vorticosamente nel suo sguardo, senza che un solo sentimento riuscisse a soffermarsi più di un attimo, a prevalere sugli altri.
Poi, quando non ce lo aspettavamo, lei si alzò. Un gesto calcolato, studiato, come la maggior parte dei gesti che le avevo visto compiere, delle parole che le avevo sentito pronunciare. Una grande attrice, non c’è che dire. Il gesto di alzarsi era di quelli che non lasciano spazio alle repliche, che preannunciano i titoli di coda. Uscì senza degnarci di uno sguardo e di nuovo, quando spalancò la porta d’ingresso, fu investita dal vento, che frullò il suo abito e lo ridepose su di lei in perfetto ordine, come nemmeno un sarto avrebbe saputo.
Lui restò a fissarla e io a fissare lui. Vedevo i suoi occhi smarriti nei quali ripassavano i momenti vissuti insieme e quelli che non ci sarebbero mai più stati. Lo osservavo mentre la sua mente avanzava a tentoni nel buio del suo avvenire alla ricerca di un punto di riferimento, uno qualunque, di una luce per quanto piccola. Ma il buio era totale.
Restai con lui ancora per un po’, senza che nessuno riuscisse a dire una sola parola. Bevemmo in silenzio. Uscendo, lei si era portata via tutte le nostre parole, e non c’era più niente che potessimo dire.
Il finale della storia è più banale di quanto tutti i protagonisti avrebbero meritato. Sono passati alcuni anni da quel pomeriggio e di lei non ho più saputo nulla. Lui non me ne ha mai più parlato, e sono quasi sicuro che sia all’oscuro di tutto quanto me. Poco dopo quel giorno ha preso il coraggio a due mani e ha parlato alla moglie, raccontandole tutto. Non ho mai capito perché l’abbia fatto, se per recuperare un rapporto ormai compromesso o per troncarlo definitivamente e iniziarne uno nuovo. La moglie non l’ha perdonato e l’ha cacciato di casa. Lui ha fatto tutto il possibile per cercare l’altra, ma inutilmente, come se lo scirocco di quel pomeriggio se la fosse portata via per sempre, su un altro pianeta.
E così continua con il suo lavoro di insegnante, sempre più meccanicamente; scrive poesie, sempre allo stesso tavolo e con l’eterno bicchiere di rosso. Vive da solo e, per quanto ne so, non ha avuto altre donne. Quando lo vedo parliamo ancora di poesia, di nuvole e di vino, come se non fosse accaduto nulla. Lui dice che ha avuto contatti con un editore e che presto potrebbero riuscire a pubblicare qualcuna delle sue poesie. Sa bene che non è vero, e lo so anch’io, ma fingiamo entrambi, un gioco segreto e innocente che, in fondo, non fa male a nessuno.
Io, testimone di una storia che probabilmente non poteva finire diversamente, cerco di restare fedele all’amicizia che da anni mi lega a lui. Percepisco però una feccia di insincerità, un retrogusto di falsità nel nostro rapporto, e spesso, mentre mi racconta delle sue peripezie letterarie, io guardo dalla vetrina del bar e spero che riprenda a soffiare lo scirocco, ma che soffi davvero, spazzando via la facciata posticcia che ogni giorno ci nasconde la verità, insinuandosi nelle case in cui ci nascondiamo, nei cassetti in cui chiudiamo a chiave i nostri segreti, sul fondo dei nostri occhi che sempre più spesso abbassiamo di fronte a chi ci guarda.
Che si insinui dentro di noi, una buona volta, e ci renda vivi.