Comunicazione disturbata

Nostro figlio avrà il colloquio per l’esame di Stato domani. È la fine di un percorso che è stato spesso tormentato. Ne ho scritto su questo blog quando ne ho avuto il tempo, sempre meno, con l’aumentare delle difficoltà e della necessità di sostenerlo.

Uno dei problemi principali che abbiamo affrontato è stato il dialogo con gli insegnanti. Siamo andati ai colloqui, abbiamo esposto le nostre richieste, abbiamo ricevuto rassicurazioni che solo qualche volta si sono tradotte in pratica. Il problema è stato contattarli al di fuori degli orari di ricevimento: ci sarebbe piaciuto un dialogo continuo, un confronto nell’interesse di nostro figlio. Purtroppo, però, raramente abbiamo ricevuto risposte alle nostre email.

La didattica a distanza ha se possibile complicato ancora di più le cose. In aggiunta al registro elettronico, la scuola di nostro figlio ha usato Microsoft Teams e gli insegnanti hanno chiesto esplicitamente di non usare la loro mail istituzionale (cognome.nome@nomedellascuola.it) per le comunicazioni, ma di passare dal registro elettronico, con una procedura discretamente tortuosa. La comunicazione si è fatta ancora più complicata.

Il colloquio conclusivo di questo anno scolastico particolare inizia con la discussione di un elaborato relativo alla materia di indirizzo. Nostro figlio frequenta il liceo delle scienze umane e gli è stato assegnato un tema sui media e la cultura, che ha svolto citando antropologi ed esperti di comunicazione. Ha trovato qualche difficoltà a capire il concetto di “panorami”, formulato dall’antropologo Arjun Appadurai. Allora ci è venuta l’idea un po’ balzana di chiedere una spiegazione direttamente a lui. Gli abbiamo mandato una mail e lui ha risposto dopo circa mezz’ora con una spiegazione chara e concisa, quanto basta per essere capita da un normale adolescente ottuso.

Questo dice molto sul tipo di persona che deve essere il professor Appadurai. Purtroppo dice molto anche sulla maggior parte degli insegnanti che nostro figlio ha incontrato.

Scirocco

Liberamente ispirato a Scirocco, di Francesco Guccini, fresco ottantenne.

Ci sono giorni in cui perfino questa città, in cui pure ho scelto di vivere, mi sembra bella. Sono i giorni dello scirocco, in cui il vento spazza l’aria e trasforma le case, le strade, perfino la gente, tanto che la realtà, così familiare da apparire lisa come i braccioli della poltrona preferita, mette su un travestimento irreale, quasi fosse un mondo parallelo che ci sembra di conoscere ma di cui ci sfuggono i dettagli.

Ma sono proprio i dettagli quelli che per la prima volta mi sembra di vedere in quei giorni. Le guglie del duomo sembrano più alte e le sculture e i fregi acquistano un nuovo rilievo, come se uno scultore barocco si fosse divertito ad appiccicare le sue creazioni sopra la struttura gotica.

In giornate come queste mi piace andare a passeggiare in periferia, tra le vecchie case con i fili per la biancheria che corrono lungo i muri, tra i balconi, a collegare le finestre. Lo scirocco solleva le lenzuola, le gonfia come le vele di un galeone corsaro, tanto che sembra di camminare lungo un porto canale, tra due ali di navi alla fonda.

Proprio in un giorno di questi lo incontrai di nuovo, dopo molto tempo. Era seduto al suo tavolino preferito, in un bar che lui considerava forse alla stregua di un bistrot parigino: arrivava, si sedeva, ordinava del vino, di solito rosso – fa più bohémien, diceva – apriva la sua cartella, tirava fuori il suo blocco di appunti dai libri di scuola e cominciava a scrivere. Poesie, diceva. La sua ambizione segreta. Cosa ne uscisse, non l’ho mai saputo davvero. Ho il sospetto che in realtà non abbia mai scritto niente di conclusivo, di soddisfacente. Era, è ancora, il tipo di scrittore mai soddisfatto, quindi condannato a restare per sempre sconosciuto, a non superare mai il vaglio del critico più severo di tutti – lui stesso.

Lo vidi, dicevo: in quel momento alzò la testa e lo salutai con la mano. Ricambiò il saluto e mi fece cenno di entrare a sedere con lui. A quel tempo ci piaceva stare insieme a chiacchierare, di cosa oggi non saprei dire. Parlavamo e le parole fluivano quasi senza una logica. Parlavamo di calcio, di musica, di nuvole, di donne, di poesia, di vino, di tutto quanto ci passasse per la testa.

Mi sedetti e ordinai anch’io del vino, ma non facemmo in tempo nemmeno a iniziare a parlare. La porta del bar si spalancò e nel locale entrò un turbine, un tornado. Pensammo che fosse stato il vento, che spronava le nuvole nel cielo, poi ci accorgemmo invece che c’era qualcuno accanto a noi. Una donna, la donna di cui mi aveva spesso parlato e che io conoscevo solo di sfuggita. Lui la guardò, smarrito. Lei lo salutò, chinò il capo verso di me, poi prese una sedia e si sedette, ripiegando attentamente sotto di sé lo stretto abito di percalle. Chiamò il cameriere e ordinò un tè con latte, che strideva decisamente accanto ai nostri calici di rosso. Ma lei era fatta così, voleva sempre spiccare, essere notata.

Iniziò a parlare, a raffica, come faceva sempre, quasi senza lasciare spazio per le risposte. Parlando piangeva, e beveva il tè, poi piangeva di nuovo e riprendeva in mano la tazza. Mi sentivo imbarazzato.

“Forse è meglio che vi lasci soli”, dissi.

“Resta”, disse lei, decisa. “Se non se la sente di affrontare l’argomento di fronte al suo migliore amico non lo potrà mai fare di fronte a nessuno”.

Lui la guardava, senza sapere come rispondere. Mi cercò con gli occhi, quasi implorando il mio aiuto, ma non c’era proprio niente che io potessi fare per lui.

Lei era un fiume in piena, inarrestabile, le mani che roteavano nell’aria, quasi dando forma ai suoi pensieri, ai sogni, alle delusioni, a quello che forse sapeva che non si sarebbe mai realizzato.

Era impossibile continuare così, disse. Doveva decidere. Lei non poteva aspettare in eterno.

“Ho due figli”, abbozzò lui. “Devi darmi tempo.” Gli occhi vagavano, febbrili, da lei a me al tavolo al bicchiere di nuovo a lei e ancora a me. Lo sguardo di un disperato, braccato, che si guarda intorno cercando la salvezza, che sa di dover decidere in una frazione di secondo, pena la sua stessa vita.

“Tempo… io…”, disse di nuovo, quasi a se stesso più che a lei. L’amore, la famiglia, la passione, la fedeltà, vedevo tutto passare vorticosamente nel suo sguardo, senza che un solo sentimento riuscisse a soffermarsi più di un attimo, a prevalere sugli altri.

Poi, quando non ce lo aspettavamo, lei si alzò. Un gesto calcolato, studiato, come la maggior parte dei gesti che le avevo visto compiere, delle parole che le avevo sentito pronunciare. Una grande attrice, non c’è che dire. Il gesto di alzarsi era di quelli che non lasciano spazio alle repliche, che preannunciano i titoli di coda. Uscì senza degnarci di uno sguardo e di nuovo, quando spalancò la porta d’ingresso, fu investita dal vento, che frullò il suo abito e lo ridepose su di lei in perfetto ordine, come nemmeno un sarto avrebbe saputo.

Lui restò a fissarla e io a fissare lui. Vedevo i suoi occhi smarriti nei quali ripassavano i momenti vissuti insieme e quelli che non ci sarebbero mai più stati. Lo osservavo mentre la sua mente avanzava a tentoni nel buio del suo avvenire alla ricerca di un punto di riferimento, uno qualunque, di una luce per quanto piccola. Ma il buio era totale.

Restai con lui ancora per un po’, senza che nessuno riuscisse a dire una sola parola. Bevemmo in silenzio. Uscendo, lei si era portata via tutte le nostre parole, e non c’era più niente che potessimo dire.

Il finale della storia è più banale di quanto tutti i protagonisti avrebbero meritato. Sono passati alcuni anni da quel pomeriggio e di lei non ho più saputo nulla. Lui non me ne ha mai più parlato, e sono quasi sicuro che sia all’oscuro di tutto quanto me. Poco dopo quel giorno ha preso il coraggio a due mani e ha parlato alla moglie, raccontandole tutto. Non ho mai capito perché l’abbia fatto, se per recuperare un rapporto ormai compromesso o per troncarlo definitivamente e iniziarne uno nuovo. La moglie non l’ha perdonato e l’ha cacciato di casa. Lui ha fatto tutto il possibile per cercare l’altra, ma inutilmente, come se lo scirocco di quel pomeriggio se la fosse portata via per sempre, su un altro pianeta.

E così continua con il suo lavoro di insegnante, sempre più meccanicamente; scrive poesie, sempre allo stesso tavolo e con l’eterno bicchiere di rosso. Vive da solo e, per quanto ne so, non ha avuto altre donne. Quando lo vedo parliamo ancora di poesia, di nuvole e di vino, come se non fosse accaduto nulla. Lui dice che ha avuto contatti con un editore e che presto potrebbero riuscire a pubblicare qualcuna delle sue poesie. Sa bene che non è vero, e lo so anch’io, ma fingiamo entrambi, un gioco segreto e innocente che, in fondo, non fa male a nessuno.

Io, testimone di una storia che probabilmente non poteva finire diversamente, cerco di restare fedele all’amicizia che da anni mi lega a lui. Percepisco però una feccia di insincerità, un retrogusto di falsità nel nostro rapporto, e spesso, mentre mi racconta delle sue peripezie letterarie, io guardo dalla vetrina del bar e spero che riprenda a soffiare lo scirocco, ma che soffi davvero, spazzando via la facciata posticcia che ogni giorno ci nasconde la verità, insinuandosi nelle case in cui ci nascondiamo, nei cassetti in cui chiudiamo a chiave i nostri segreti, sul fondo dei nostri occhi che sempre più spesso abbassiamo di fronte a chi ci guarda.

Che si insinui dentro di noi, una buona volta, e ci renda vivi.

Compreso nel prezzo

Dice che i computer Apple sono cari.

Poi ti accorgi che il dizionario italiano installato di serie nel Mac è il Devoto-Oli, consultabile con un tocco del trackpad, e scopri di avere risparmiato qualche decina di euro per la versione cartacea o per quella digitale. Scopri anche che il dizionario inglese-italiano fornito di serie non ha niente da invidiare ad altri più costosi, cioè tutti gli altri.

Poi ti accorgi che l’ultima versione di macOS, High Sierra, contiene un server Time Machine. Se uno ha in casa diversi Mac che fanno il backup con Time Machine (io ne ho quattro) significa che non è più necessario avere un disco per ciascun computer, né tantomeno avere un NAS su cui far confluire tutto, come ho fatto io fino a pochi giorni fa. Significa comprare un solo disco invece di quattro e non dover acquistare un NAS, per cui bisogna mettere in conto almeno un centinaio di euro.

Poi, certo, i Dell costano meno.

Imbecilli di ogni epoca

Karl Kraus, 16 ottobre 1907, centodieci (110) anni fa:

I nemici delle vaccinazioni – anche questa è una professione – hanno detto che a Vienna non è scoppiato il vaiolo, ma un’epidemia da vaccino. Ora, anche loro sanno valutare il valore della profilassi, ma la loro prudenza è un po’ esagerata: si prendono il vaiolo per proteggersi dal vaccino.

Noi oggi siamo più avanti e organizziamo i morbillo-party. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.

Come si fanno i riassunti

Condivido ogni singola parola di mrs. cosedalibri, e raccomando caldamente di sottoscrivere l’abbonamento a Anteprima. Cinquanta euro per 240 uscite significa 21 centesimi a numero, un quinto del prezzo di un caffè al bar e metà di una capsula Nespresso.

Al di là del valore informativo, fossi (ancora) un insegnante farei leggere uno degli illeggibili articoli della maggior parte dei quotidiani italiani insieme al riassunto che ne fa Giorgio Dell’Arti. Dall’impietoso confronto i ragazzi impararebbero come si sintetizza, come si estrae il succo di quello che c’è da dire e si lascia da parte il resto. E anche, soprattutto, come si scrive in italiano.

Sarò breve

Sono allo sportello di un ufficio pubblico mentre l’impiegato fa quello che gli ho chiesto di fare. Sul suo tavolo vedo la stampa di una email.

Dopo l’intestazione, con mittente, destinatario, oggetto, data e ora, c’è scritto in una riga che l’impiegato deve ricordarsi di inserire i suoi orari di lavoro della settimana precedente.

Segue la firma del superiore che ha navigato il messaggio, quasi dieci righe con nome, telefono, ufficio, fax, email e chissà cos’altro. Poi ecco il disclaimer che invita a distruggere il messaggio se lo si è ricevuto per errore, ai sensi di non so quale norma: sei righe Infine, in due righe, l’invito a non stampare il messaggio se proprio non è necessario.

Evidentemente era necessario stamparlo, ma era necessario anche inviare una mail di venticinque righe per una comunicazione di dieci parole?

Ulteriori prove dell’obsolescenza programmata

La mia esperienza su un iPad vintage si arricchisce di nuovi, interessanti dettagli che aiutano a capire come Apple pianifichi e gestisca l’obsolescenza dei suoi dispositivi.

Partiamo dalla batteria. L’altro giorno ho usato iPad per prendere appunti per quasi quattro ore. Ovviamente non sono state quattro ore di uso continuato: di tanto in tanto il dispositivo andava in stop, ma diciamo comunque che ho scritto per almeno due ore. Al termine la batteria era scesa da 100 a 75%, che non mi sembra male per un iPad di sette anni.

L’aspetto che più mi ha colpito finora, comunque, è la gestione della autenticazione a due fattori, cioè quel livello di sicurezza supplementare per cui posso accedere al mio account iCloud solo digitando sul dispositivo un codice a sei cifre che appare su un altro dispositivo. Ovviamente ai tempi di iOS 5 neanche si sapeva cosa fosse l’autenticazione a due fattori, quindi al vecchio iPad manca proprio l’interfaccia per usare questa funzione.

Eppure il probloema è stato risolto in un modo brillante: iCloud invia il codice a sei cifre a un altro dispositivo, mentre su iPad appare un avviso che mi chiede di inserire la mia password seguita dalle 6 cifre.

Evidentemente qualcuno in Apple ha pensato al problema e ha studiato una soluzione indubbiamente efficace. Alla faccia di chi è sicuro del contrario.

Obsolescenza programmata

Si sa che Apple è cattiva. Rallenta di proposito i nostri iPhone per far sì che noi, stufi del disagio, ne compriamo un altro. In Francia le hanno perfino fatto causa.

La logica perversa di tutto questo è stata smontata da Lucio Bragagnolo, e non c’è proprio niente altro da aggiungere.

Al lavoro mi sono state affidate nuove mansioni, che comportano tra l’altro la partecipazione a molte più riunioni e più responsabilità organizzative. Dato che sono un disastro nel prendere appunti su carta, ho chiesto di avere a disposizione un iPad per scrivere note e gestirle meglio. Mi hanno risposto che gli iPad vengono forniti solo al management, di cui io non faccio parte.

Ho preso in considerazione l’idea di comprarne uno, ma ho deciso invece di usare quello di mia moglie, che è quasi sempre disponibile (lei usa un iPhone 6s e un MacBook Pro del 2012 per lavorare). Per prendere appunti uso Simplenote, che grazie ai tag mi permette di organizzare tutte le note e averle disponibili anche sul computer fisso dell’ufficio, dove posso modificarle e perfezionarle. Funziona tutto bene, devo ancora verificare sulla lunga distanza se è lo strumento giusto, ma credo di sì.

Oh, and one more thing, come avrebbe detto Steve Jobs: l’iPad in questione è del 2010 e ci gira iOS 5.1.1.

Chi ci conosce e chi no

Un interessante articolo di Gizmodo spiega bene quali siano i meccanismi usati da Facebook per proporre nuovi amici (le “Persone che potresti conoscere”. È in inglese, ma vale la pena. Per chi proprio non capisse, basta dare il testo originale in pasto a Deepl per ritrovarsi una versione italiana più che dignitosa. En passant, Deepl è molto meglio di Google Translate, e oltretutto è un modo per non fornire a Google più informazioni su di noi di quante già non ne prendano da soli.

L’articolo è a suo modo inquietante. Come spiega John Gruber, probabilmente Facebook ha dati anche di chi non si è mai neanche registrato. Basta apparire tra i contatti di qualcuno che li ha condivisi con Facebook.

Dovrebbe bastare a farci limitare il tempo che passiamo su Facebook o le informazioni, le foto, i nostri dati che mettiamo in piazza davanti a tutti.

Io ci passo si e no mezz’ora alla settimana, e non me ne sono ancora pentito.

Oggi a scuola ho la verifica di iPhone 8

Curzio Maltese, su Facebook:

La scuola, o meglio gli insegnanti, e non certo tutti, sono uno dei pochi fattori di resistenza all’omologazione. Per questo negli ultimi decenni, una finta riforma dopo l’altra, si è giunti a demolirne il ruolo e il prestigio. E tuttavia, si continuano a escogitare trovate “moderne”. Per fare un esempio, io non ho nulla contro l’introduzione a scuola di tablet e smartphone, ma che il dibattito sulla modernizzazione si riduca a questo, o ad avviare i giovani al tirocinio nei fast food, quando i programmi si fermano all’Ottocento, mi pare desolante. Senza nulla togliere al bellissimo iPhone 8, del quale i ragazzi già sanno tutto, forse sarebbe più urgente far scoprire ai ragazzi Caproni, Gadda o Pasolini, o la storia della guerra in Vietnam, che non possono contare su una vasta copertura mediatica e pubblicitaria.

Cosa dire? Che chi ha un minimo di esperienza scolastica (io ho insegnato per 14 anni e ho due figli) sa benissimo che pochi luoghi tendono all’omologazione più della scuola. E non parlo dell’omologazione rispetto al mondo, ma al suo interno, dove chi spicca non viene valorizzato, non esiste un vero insegnamento individualizzato e alla fine tutto si riduce ad arrivare al sei.

I programmi non si fermano certo all’Ottocento. Maltese avrà figli che vanno a scuola? Mio figlio, che quest’anno inizia la terza superiore, durante l’estate ha letto Calvino, l’anno scorso ha letto Sbarbaro. E poi, certo, Caproni e magari anche Alda Merini e Tabucchi, ma non vorremo trascurare Foscolo, Manzoni, il Dolce stil novo. E Pirandello sarà abbastanza moderno? Dove tagliamo? E se il tirocinio, anziché nei fast food, si svolgesse in un’osteria tradizionale, sarebbe meglio?

Bellissima poi l’idea, solo suggerita, ci mancherebbe, che la scuola insegni come funziona l’iPhone 8. Se così non fosse, qual è il nesso logico tra sapere tutto di iPhone e non conoscere Caproni, come se fosse una responsabilità della scuola?

Oltre millesettecento like su Facebook. Mah.